- 23/04/2024
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Il futuro pensionistico per le attuali generazioni di lavoratori, in particolare i quaranta-cinquantenni, presenta notevoli sfide. Con l'aspettativa di una pensione più tardiva e meno generosa rispetto agli ultimi redditi, l'importanza di un reddito pensionistico adeguato è cruciale sia per mantenere il tenore di vita che per sostenere la stabilità sociale.
Scendiamo ora un po’ nel dettaglio e affrontiamo il problematico tema della pensione. Già, perché nel futuro di molti odierni 40-50enni c’è una pensione a 70 anni o quasi, con assegni in media molto più magri degli ultimi redditi dichiarati. Va anche peggio se consideriamo i trentenni e i ventenni.
Vale la pena ribadire quanto sia importante un buon reddito pensionistico:
- a livello di singolo individuo, serve a mantenere il proprio tenore di vita quando non si è più in età da lavoro, garantendo al contempo un margine di sicurezza per gli imprevisti (che, a pensarci bene, da anziani diventano una certezza);
- a livello pubblico, evita che una moltitudine di anziani gravino sul resto della società.
Gli strumenti a disposizione del risparmiatore per “farsi la pensione” sono essenzialmente due: la previdenza obbligatoria e la previdenza complementare e integrativa. Vediamo di cosa si tratta.
Pensione obbligatoria Inps di anzianità lavorativa o vecchiaia
Per tutta la vita lavorativa, una parte della retribuzione è costituita dai cosiddetti “contributi previdenziali”, che vengono versati all’Inps e servono a pagare le pensioni di chi ha già cessato di lavorare.
Al termine dell’attività lavorativa, chi ha versato regolarmente i contributi previdenziali e ha maturato i requisiti riceve la pensione obbligatoria dall’Inps. Questo è ciò che viene spesso chiamato “primo pilastro pensionistico”.
Il fatto che in Italia oggi ci siano relativamente pochi giovani (che versano contributi) e tanti anziani (che ricevono reddito pensionistico) fa sì che la pensione pagata dall’Inps sia sempre più scarna.
Come se ciò non bastasse, andrà sempre peggio: l’invecchiamento progressivo della popolazione italiana implica che questo sistema non abbia più i presupposti demografici per funzionare bene.
Per evitare una drastica riduzione del reddito una volta raggiunta l’età della pensione, la pensione obbligatoria non basta. Occorre guardare alle forme di pensione complementare e integrativa. Vediamo quali sono, analizzandone le principali caratteristiche.
Fondi pensione “chiusi” di categoria o aziendali
Costituiscono il cosiddetto “secondo pilastro” della previdenza e sono anche noti come “fondi negoziali”, in quanto sono frutto di accordi tra le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali di settori, aziende o categorie specifiche.
Sono prodotti finanziari in cui sia il datore di lavoro che il lavoratore versano mensilmente dei contributi. I dipendenti possono destinarvi il TFR (Trattamento di fine rapporto) e la contribuzione è favorita da agevolazioni fiscali.
I soldi accumulati nei fondi vengono gestiti da società specializzate, che li impiegano sui mercati finanziari con diverse linee d’investimento, chiamate “comparti”, più o meno rischiose (es. azionarie, obbligazionarie o garantite). È il lavoratore a scegliere in quale comparto investire: una scelta cruciale (e pertanto rivedibile) per determinare il proprio reddito da anziani.
Il capitale matura nel tempo grazie ai versamenti regolari e ai rendimenti sugli stessi ottenuti dai gestori (dedotti i costi). Sia chiaro: a priori, non è noto quanto sarà il capitale finale, detto anche “montante”.
Al momento della pensione, il lavoratore ha due possibilità:
- convertire il montante in una pensione (a integrazione di quella erogata dall’INPS);
- oppure riscattare non più del 50% del capitale maturato e convertire in rendita (cioè pensione mensile) il resto.
Il capitale accumulato nei fondi può essere in larga parte riscattato anche prima dell’età della pensione, ma solo per ragioni straordinarie: per esempio, in caso di disoccupazione o per gravi motivi di salute. Inoltre, dopo almeno otto anni di versamenti, per qualsiasi ragione il lavoratore può ritirare fino al 30% del capitale maturato.
Fondi pensione aperti e PIP (Piani Individuali Pensionistici)
Si rivolgono a tutti i lavoratori, siano essi dipendenti o autonomi, di qualsiasi categoria o regione (in pratica, si rivolgono a chi non ha disposizione un fondo pensione chiuso) e costituiscono il cosiddetto “terzo pilastro”.
Si dividono in fondi pensione aperti, distribuiti da banche e società finanziarie, e PIP, venduti da compagnie di assicurazione.
Funzionano in modo molto simile ai fondi pensione chiusi, in quanto i contributi raccolti e destinati a un comparto scelto dal risparmiatore vengono investiti sui mercati finanziari dai gestori con l’obiettivo di generare un montante, da convertire poi in rendita al momento del pensionamento. Anche in questo caso è possibile avere il riscatto del capitale in anticipo.
Il contributo del datore di lavoro non è automatico, come per i fondi pensione chiusi, anche se i datori di lavoro possono decidere di contribuire al fondo pensione, traendone benefici fiscali.
Piani di risparmio personale
Si tratta di creare volontariamente un portafoglio d’investimento personale con l’obiettivo di accantonare regolarmente, per esempio a cadenza mensile, una cifra al fine di costruire un capitale da utilizzare per quando si andrà in pensione.
Votati 4,7 stelle da oltre 400.000 clienti.
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È una soluzione che, in vista della vecchiaia, può essere attuata con diversi prodotti finanziari come obbligazioni, etf, fondi comuni d’investimento, azioni, i quali possono essere sottoscritti anche attraverso Piani di Accumulo del Capitale (PAC).
Trattandosi di portafogli creati in modo del tutto autonomo, non sono soggetti ad alcuna regolamentazione particolare, né a particolari agevolazioni fiscali (oltre a quelle previste, per esempio, per i titoli di Stato).
Fate molta attenzione ai costi
Sono l’unica componente certa di qualunque investimento. E su un investimento come quello previdenziale, che può interessare un periodo lungo, incidono pesantemente.
Per esempio, una differenza dell’1% nei costi di gestione, per un lavoratore che decide di investire nella previdenza integrativa 2mila euro l’anno per 35 anni con un tasso lordo di rendimento annuo del 4%, impatterebbe negativamente per oltre 26mila euro sul montante finale dell’investimento.
In pratica, in questo esempio, un 1% di costi si mangia, nell’arco di vita dell’investimento, circa il 18% del capitale destinato alla pensione. Non proprio briciole, quindi occhio.