Fintech e parità di genere: un bicchiere mezzo vuoto

Solo nel 13,5% dei casi le donne hanno ruoli al vertice nel fintech. Come invertire il trend? Parola a Laura Grassi, direttrice dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano.

leadership femminile fintech

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Analizzando attentamente i numeri sulla leadership femminile nel mondo finanziario, la prima sensazione che abbiamo è quella del bicchiere mezzo vuoto. Da un lato riscontriamo sicuramente un miglioramento rispetto al passato, legato prevalentemente all’aumento della presenza di donne al livello di ingresso in azienda, il cosiddetto entry level. Dall’altro, invece, la strada per il loro raggiungimento ai vertici aziendali, i C-Level, è appena abbozzata: «Nelle fintech italiane in media, le donne compongono il 36% circa della popolazione aziendale. Tuttavia, se consideriamo le startup della finanza tecnologica che hanno almeno una co-founder donna, la percentuale scende al 13,5%», svela Laura Grassi, direttrice dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano.

Donne al volante...

Ribaltando un vecchio cliché, potremmo affermare che “donna al volante, fatturato crescente”, con cognizione di causa.

Sono diversi, infatti, gli studi che mostrano i benefici per le aziende quando le donne sono al comando. Prendiamo Mckinsey: in un suo studio dimostra che le aziende con un buon equilibrio tra donne e uomini ottengono una redditività superiore del 21% rispetto ai competitor.

Credit Suisse, allo stesso modo, attesta che le aziende con donne leader hanno un rendimento del capitale proprio più alto del 19% e registrano un +9% sui dividendi.

Infine, Catalyst in una sua ricerca evidenzia come le aziende che hanno almeno tre donne nei consigli di amministrazione ottengano un +34% nel ritorno per gli investitori.

Di fronte a questi numeri, la domanda è: cosa blocca ancora le aziende, nel comparto finanziario, ma anche al di fuori, ad assumere donne nei posti che contano?

«Nella risposta confluiscono tanti fattori, dalla formazione delle donne, che dovrebbe spingersi sempre più verso competenze anche STEM, alla propensione al rischio, al supporto familiare e della cura degli affetti (es. presenza di asili nido con orari fluidi), al percepito minore consenso del network di investitori a puntare su realtà guidate da donne», continua Grassi.

Questi motivi, anche se di diversa natura, hanno tutti una matrice comune: afferiscono principalmente alla sfera culturale e mettono in discussione parimenti sia gli uomini, con il superamento dei propri bias cognitivi, sia le donne, che possono trovare il coraggio di fare scelte formative diverse, e avere l’ambizione di raggiungere posizioni di vertice.

«Non possiamo aspettarci che nei prossimi anni il gender gap si riduca, se non ci impegniamo oggi sul fronte della formazione», evidenzia Grassi.

Due paradossi da affrontare

La sensibilizzazione verso la formazione cosiddetta STEM diventa il nodo focale per non cadere in un paradosso: «Se oggi una fintech volesse assumere una data scientist, non la troverebbe facilmente sul mercato, laddove è più facile reperire competenze in ruoli più incentrati sulle relazioni», avverte Grassi.

Tuttavia, le competenze che le donne devono sviluppare di più non riguardano solo le hard skill. C’è un altro tema di matrice culturale, ovvero la propensione al rischio, che va accresciuta: una qualità che i leader devono possedere, specie nei business più innovativi, come le fintech.

Anche se c’è da dire che, sempre ragionando in linea generale, le donne hanno più capacità sia nell’avere maggiore empatia con gli altri membri del team, sia nel prendersi cura della crescita di una startup: «C’è un lavoro da fare per scardinare questa avversità al rischio che si lega indissolubilmente alla cultura del fallimento, carente in Italia (e non solo nelle donne). Occorre considerare gli errori come occasioni di crescita e non come la chiusura di un percorso», puntualizza Grassi.

Un altro paradosso che le donne devono affrontare è di lavorare sui propri bias cognitivi in un contesto nel quale sono spesso loro a occuparsi di selezionare la struttura dirigente in azienda: «Quando ci si figura nella mente l’immagine di un amministratore delegato, è molto probabile che in automatico appaia un uomo. Questo è un meccanismo inconscio che le donne devono padroneggiare e che si lega alla maggiore cautela nell’accettare ruoli di vertice», continua Grassi.

Preparare un ambiente favorevole

Se l’analisi di sé stesse è una base utile di partenza, è innegabile che sono tanti gli ostacoli che si frappongono tra le donne e le posizioni di vertice.

A parità di competenze, alle donne viene chiesto sempre di più, di essere più capaci, più competitive, più preparate rispetto ai colleghi uomini. Questo avviene perché gli stereotipi di genere condizionano tutta la vita lavorativa.

Secondo un’indagine di Badenoch+Clark, Women in Charge, il 38% delle donne intervistate ritiene che, a parità di competenze, siano sempre i colleghi uomini a essere favoriti nel raggiungimento dei vertici aziendali.

«Quando una donna raggiunge obiettivi importanti, spesso si tende a scandagliare il suo CV per capire come è arrivata al vertice. Laddove bisognerebbe imparare dalla sua storia, non giudicarla», propone Grassi.

Pensiamo alle attività di fundraising. Un venture capitalist (uomo) ha più difficoltà a finanziare idee guidate da donne. Non è un caso che siano nate associazioni come Angels4Women, ideata proprio dalla CEO di una fintech, Antonella Grassigli di Doorway, per promuovere attività di angel investing rivolte a un pubblico femminile.

C’è da dire, tuttavia, che la soglia d’attenzione dei CEO verso gli stereotipi di genere è molto più alta. Vanno in questo senso le iniziative di UB training, dove UB sta proprio per “unconscious bias”. Microsoft, per esempio, realizza video nei quali mostra ai dipendenti situazioni in cui c’è stato un pregiudizio, per aumentare la loro consapevolezza verso il tema. In uno di questi si vede, per esempio, una donna che viene interrotta da colleghi uomini mentre sta per esprimere il suo punto di vista durante un meeting.

Altre strategie messe in campo e che hanno dimostrato di avere un buon riscontro sono quelle che rientrano nel GPP - Gender Proportionality Principle - secondo cui ogni livello in un’organizzazione deve riflettere in proporzione, dal punto di vista del genere, quello immediatamente inferiore. Se, per esempio, le donne rappresentano il 50% al livello più basso, i leader dovrebbero impegnarsi per mantenere la stessa percentuale anche al livello superiore e così via.

Questo principio applicato da alcuni gruppi, come Unilever, ha contribuito a ridurre il gender gap nelle assunzioni, come nelle promozioni, come spiega un articolo su Harvard Business Review.

Invece, meno efficaci diventano le leggi calate dall’alto, anche quando particolarmente meritorie, se non inserite all’interno di una strategia aziendale chiara e con obiettivi misurabili sul fronte Diversity, Equity & Inclusion (DEI). È il caso della legge Golfo-Mosca che ha imposto la presenza di donne negli organi di amministrazione e nei collegi sindacali.

Nel sistema bancario, per esempio, la presenza di donne negli organi di controllo è salita al 17,7%. Tuttavia, il numero delle amministratrici delegate resta fermo all’1%.

«È successo che alcune aziende abbiano mantenuto le soglie minime richieste dalla legge, fermandosi qui nell’interpretazione. Mentre, in generale, questo può essere un volano a tutti i livelli sprigionare il talento femminile», continua Grassi.

Pensiamo ad azioni strategiche per riconoscere la discriminazione in azienda, per creare canali di comunicazione dove le donne possono denunciare i propri problemi, o ancora per ricevere supporto psicologico. O ancora azioni concrete di supporto, con partnership strategiche tra aziende e istituzioni, per favorirle nel raggiungimento di un equilibrio nella gestione complessa di famiglia e lavoro.

Il bicchiere è ancora mezzo vuoto

In generale, è ancora evidente un gender gap nelle startup fintech, i dati dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano mostrano che al 2021 solamente il 36% dei dipendenti delle startup Fintech italiane è di sesso femminile. Il divario si fa ancora più evidente nelle posizioni di controllo: le fintech guidate da donne si contano ancora sulle dita di una mano.

Eppure, questi dati, se associati ad altre condizioni - come la crescita dell’ecosistema fintech, la maggiore sensibilità verso i temi DEI e il PNRR, che destinerà risorse alla riduzione del gender gap - lasciano sperare in un’accelerazione nei prossimi anni: «Il tema è caldo e l’Italia sta lavorando a livello di sistema. Le fintech possono fare tanto e indicare una strada: è uno degli ecosistemi che cresce di più e potrà offrire diverse opportunità alle donne. Per favorirle, bisogna puntare sull’istruzione, a livello scolastico e universitario, per dirigere le donne in determinati percorsi di carriera, ma anche su attività di reskilling, sulla valorizzazione delle competenze, in seno alle aziende. Ciò per evitare il rischio che l’assunzione di donne in ruoli strategici per la vita aziendale non diventi mai un fatto di principio, a discapito delle competenze», conclude Grassi.

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