Perché l’employability cambia il DNA di un’azienda

Il disallineamento delle competenze blocca la crescita delle aziende. Perché la cultura dell’occupabilità rappresenta una via di salvezza.

Employability visual

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«Mi piace la metafora della vita come un corso universitario. Frequenti a ogni età e, se sei abbastanza sveglio, impari ogni giorno qualcosa di nuovo», è una frase di Richard Branson, imprenditore che ha saputo costruire un impero con il suo marchio di punta, Virgin Group.

Se leggiamo le biografie di alcuni dei più bravi uomini di business al mondo come lui, c’è una costante: la volontà di essere una beta permanente, una definizione coniata da un altro imprenditore celebre, Reid Hoffman, il cofondatore di Linkedin.

Essere una beta permanente significa avere la consapevolezza che, come gli strumenti tecnologici si trasformano nel tempo, così le nostre competenze hanno bisogno di costante aggiornamento.

Questa è in fondo una lezione universale, ma vale ancora di più oggi con il nemico numero uno del mondo del lavoro: il disallineamento delle competenze. Un fenomeno che rischia di bloccare la crescita delle imprese, che non riescono a trovare figure idonee.

La soluzione prende il nome di occupabilità. Conosciuta anche con il termine inglese employability: la capacità delle persone di essere occupate o di saper cercare attivamente un lavoro. Questa abilità è strettamente connessa alle competenze delle persone e come queste siano al passo con i tempi, sempre spendibili e idonee sul mercato del lavoro.

Quando i lavoratori sono spronati a riqualificare le proprie competenze e a perseguire una formazione costante, trasformano la propria mentalità. Sanno cioè che l’obiettivo principale non è cercare un’occupazione, per appropriarsi in modo passivo di uno spazio, ma essere occupabili oggi, per evolvere, crescere e diventare sempre più capaci di adattarsi, di essere spendibili in ruoli diversi in futuro.

«È la traduzione di uno stato di fatto e non più un cambio di paradigma. Lo dicono i dati in Europa e in Italia. Nel nostro Paese la disoccupazione viaggia a doppia cifra, quella giovanile è al 26,8%. Dal nostro osservatorio, assistiamo a 8-10 mila offerte di lavoro che non riescono a essere coperte per la mancanza di competenze», spiega Manlio Ciralli, Vice President Marketing & Innovation di The Adecco Group e CEO e co-founder di PHYD.

L’educazione alla contemporaneità

La sfida dell’occupabilità va affrontata con delle azioni sinergiche tra soggetti pubblici e privati. La strada per trasmettere alle persone i concetti di occupabilità e formazione permanente si avvia a scuola e all’università, e viene poi promossa dalle politiche sul lavoro:

«Educhiamo le persone a essere contemporanee. Dopotutto, l’abitudine a un apprendimento continuo non è più derogabile, se vogliamo fare dei passi avanti come ecosistema. Dobbiamo aiutare le persone a capire che i loro percorsi di studio non terminano con il conseguimento di un diploma o di una laurea. Si tratta di un enorme cambiamento culturale», avverte Ciralli.

Se è vero, da un lato, che l’affermazione del concetto di occupabilità è una responsabilità sociale di tutti, è altrettanto vero che i leader aziendali devono caricarsi questo onere, specie se operano in campi coinvolti in processi rapidi di trasformazione digitale, come la finanza.

Mettersi davanti a uno specchio

L’obiettivo di una strategia di occupabilità efficace è di aiutare i lavoratori a mettersi metaforicamente davanti a uno specchio, per valutare le competenze e comprendere come riempire eventuali lacune.

I percorsi di formazione aziendale, infatti, anche quelli realizzati con le migliori intenzioni, non hanno possibilità di riuscita se non si è prima creato un clima favorevole in azienda. Per quelle imprese che non hanno ancora affrontato la questione, si tratta di mettere in discussione diversi aspetti della loro organizzazione.

Ci riferiamo ai parametri di misurazione delle performance, alle politiche di welfare, fino a giungere a una revisione degli strumenti di assessment delle competenze:

«I CEO oggi si trovano ad affrontare spesso le insoddisfazioni dei propri dipendenti, che scaturiscono anche da differenze generazionali. Il cinquantenne, per esempio, è abituato a essere valutato sulla base dei risultati, mentre il trentenne, desidera essere giudicato soprattutto per l’impatto che ha sull’azienda. Allo stesso tempo, richiede che l’organizzazione che rappresenta abbia a cuore il suo benessere e anche quello ambientale e sociale», sottolinea Ciralli.

Le politiche di benessere diventano decisive per creare un ambiente favorevole alla formazione permanente. Alcune aziende hanno affidato a dei manager chiamati CPO, acronimo di Chief People Officer, il compito di elaborare strategie per migliorare il benessere dei dipendenti, in ufficio e anche da remoto.

Una ricerca di Gartner mostra che le aziende americane hanno incrementato del 94% le proprie politiche di well-being, impegnandosi soprattutto nel supporto al benessere mentale (nell’85% dei casi).

In altre parole, qualsiasi politica di formazione aziendale può attecchire meglio in un contesto in cui i leader dimostrano di essere davvero interessati alla vita e alla carriera dei propri collaboratori. Quest’ultimi vanno aiutati, inoltre, a prendersi le proprie responsabilità:

«La formazione non va mai calata dall’alto, ma nasce da percorsi di assessment offerti ai collaboratori, che possono così comprendere in autonomia le loro potenzialità, debolezze e cosa possono fare per migliorarsi», continua Ciralli.

Microlearning e big data

Un approccio efficace all’occupabilità non segue percorsi già tracciati in passato. Un saggio su Harvard Business Review, per esempio, offre uno scorcio sulle caratteristiche che una formazione moderna dovrebbe avere, per coinvolgere i dipendenti e spingerli a gestire in autonomia il miglioramento delle proprie skill.

Nel saggio si parla di una formazione che sia: collettiva, i gruppi di studio hanno dimostrato di essere più efficaci rispetto all’apprendimento in solitudine; personalizzata in base al dipartimento di appartenenza o al ruolo del collaboratore; sintetica, il micro-apprendimento con pillole da 15-20 minuti funziona meglio di sessioni più lunghe.

E ancora: innovativa, che sfrutta big data e intelligenza artificiale per misurarne i risultati e ottimizzarla lungo il percorso, e meritocratica:

«Ci sono delle formule che i player della finanza potrebbero adottare, ispirandosi alle big tech americane. Come la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni, con il quinto che viene destinato alla formazione. O la concessione di bonus con il superamento dei percorsi di formazione: un dipendente impegnato nello sviluppo della sua employability sta lavorando anche sul futuro dell’azienda, allungandone il ciclo di vita», consiglia Ciralli.

Instillare la passione dell’esploratore

Il potenziamento delle politiche di welfare aziendale, una formazione al passo con i tempi e ancora un sistema diverso di meritocrazia, basato non solo sui risultati, ma sulla capacità di apprendere nuove nozioni, conducono a sviluppare un nuovo mindset in azienda: la passione dell’esploratore, come spiega uno studio di Deloitte.

La motivazione che spinge le persone a formarsi non può essere la paura ma la passione caratteristica di chi ama esplorare. Per riuscirci, i leader devono trasmettere un messaggio chiaro: i loro collaboratori non sono parte di un meccanismo fisso, non devono adattarsi a seguire le stesse procedure per anni, ma essere pronti a prendersi dei rischi, a deviare, se necessario, dallo schema che è stato assegnato loro.

Questo richiede un salto culturale in avanti nelle organizzazioni bancarie e assicurative. Passare cioè da un modello di efficienza scalabile, in cui la chiave del successo è portare al termine le attività velocemente e nel modo più economico possibile, a un paradigma dove a essere scalabile è la formazione, nel quale si offre a tutti la possibilità di apprendere in modo rapido e applicare le nuove conoscenze nel lavoro.

Più in concreto, i leader devono partire dall’identificazione delle aree in cui ci sono più sfide per l’azienda e incoraggiare più dipartimenti a collaborare nel cercare soluzioni, mettendo subito a frutto le competenze acquisite:

«Sono azioni impegnative, ma uno schema apprendimento - flessibilità - rischio - innovazione, permette alle aziende e alle competenze dei collaboratori di gestire i cambiamenti improvvisi dei mercati», evidenzia Ciralli.

Nutrimento per il mercato del lavoro: PHYD

Quello richiesto ai leader delle organizzazioni sul fronte dell’occupabilità non è un compito semplice. Per aiutarli, sono nati strumenti, come PHYD, in grado di mettersi a servizio sia dei lavoratori, che dei manager HR e dei CEO.

Situato in via Tortona a Milano, di circa 15mila metri quadri, PHYD nasce da una crasi tra mondo fisico (physical) e digitale (digital) e dalla volontà di nutrire le persone (può essere, infatti, letto come “feed”, “nutrire”, in inglese), e rappresenta una possibilità concreta per rispondere alle necessità discusse in questo articolo:

"Si tratta di una piattaforma che consente, iscrivendosi gratuitamente, anzitutto di misurare il proprio livello di occupabilità. È possibile valutare le proprie competenze, che siano linguistiche, digitali o amministrative, con l'obiettivo di lavorare sulla propria ambizione per migliorarle", spiega Ciralli.

Funziona così: lo studente, lavoratore o manager, sceglie delle posizioni lavorative in cui opera o in cui spera di lavorare. Il candidato può decidere fino a quattro - cinque posizioni lavorative. Phyd fa poi un match tra le competenze della persona e quelle necessarie per occupare quel ruolo e spiega anche se la posizione è richiesta o in declino sul mercato del lavoro.

L’algoritmo del sistema restituisce poi delle percentuali di aderenza, calcolando l’indice di occupabilità:

«Questo è solo il primo step. Phyd mostra poi come quella percentuale può crescere, proponendo soluzioni concrete: quali corsi seguire per migliorarsi, gratuiti e a pagamento, o i coach con cui entrare in contatto per creare un percorso personalizzato di formazione», aggiunge Ciralli.

Tra le ambizioni di Phyd:

«Calcolare l’indice di occupabilità diventerà familiare come andare in palestra. Si parte dai propri problemi e obiettivi - es. perdere peso, fare massa o altro - e attraverso dei percorsi appositi, si aiutano la mente e il corpo a vivere meglio. Allo stesso modo, funzionerà con la propria formazione», conclude il co-founder e CEO di PHYD.

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